Diario di viaggio
Negli ultimi anni ho avuto il privilegio di visitare alcuni posti sulla Terra carichi di un significato particolare. Luoghi in cui l’energia interna del nostro Pianeta si manifesta in superficie in maniera così intensa da plasmare in modo estremo e spettacolare la geografia del paesaggio.
Ricco di suggestione il mio viaggio in Islanda ma, ancor più, questo ultimo viaggio in Dancalia.
La Dancalia è una depressione, più di cento metri sotto il livello del mare, a forma triangolare tra l’Etiopia, l’Eritrea e Gibuti, rubata al mar Rosso, 4 milioni di anni fa, per il sorgere improvviso di una catena montuosa. Dopo millenni di lenta evaporazione questa regione si è trasformata in uno dei più grandi depositi di sale della terra, con uno spessore di ben 5 km, tale da non dare possibilità di crescita a nessuna forma di vita vegetale.
E’ attraversata dalla grande frattura della Rift Valley, punto di separazione delle placche tettoniche araba e africana.
Paesaggio arido, impervio e cosparso da vulcani ancora attivi, dove solo l’uomo, con la sua caparbietà, è riuscito a sopravvivere traendo proprio dal sale l’economia per una fragile sopravvivenza.
Un angolo di mondo dove la natura ci ricorda la propria supremazia; una natura forte e in continuo divenire, un mondo dove la genesi non è mai terminata e dove nulla è uguale non solo all’anno prima ma addirittura al giorno prima.
“Erta Ale”
La lenta ascesa alle prime ore dell’alba all’Erta Ale in un deserto, prima di sabbia e poi di rocce, ci tiene con il fiato sospeso. Ben quattro ore di continuo cammino, in un silenzio rotto solo dal rumore dei nostri passi e dal nostro respiro affannoso, ci separano dalla vetta. Una luna, sorridente e quasi incuriosita dal nostro vagare, ci accompagna e ci rischiara il cammino, fino a cedere il passo ad un pigro e debole sole che, tingendo tutto di un giallo tenue, si allunga in sinuose dita tra le fantastiche e minacciose ombre delle basse rocce.
In alto, un bagliore di fuoco e la sagoma maestosa della montagna.
Gli ultimi metri, quelli più erti, ci levano il respiro, ma ormai ci siamo: siamo sul bordo della grande caldera.
Un km e mezzo di diametro completamente riempito da onde pietrificate di lava, dal grigio cenere al nero intenso.
Un ripido sentiero ci permette la discesa nel dirupo e siamo li, piccoli e impotenti al centro della storia della nostra Terra.
Camminiamo a rilento, le grandi onde di dura lava scricchiolano sotto i nostri passi; sono i tunnel dove un tempo, infuocata, era corsa fino a valle lasciando una sottile e fragile intercapedine.
Improvvisamente nel silenzio si comincia ad avvertire un lontano frastuono, come di un fiume in piena. Sembra di avvicinarsi ad una grande cascata.
L’impatto è violento: 1200 gradi fumano in vapori ricchi di zolfo; dobbiamo stare indietro, sotto vento, per non essere investiti dalle esalazioni di acido solfidrico.
È il grande lago di lava.
Là, al suo interno, il magma gorgoglia, ribolle, si mescola come in una grande macina dando origine a fenditure infuocate; piccole eruzioni si solidificano all’istante al contatto dell’aria.
Tutto è immobile e tutto si muove.
Lentamente, da un bordo all’altro e dal centro verso i bordi, si creano correnti, la superficie si increspa, esplode, si solidifica, si inviluppa.
Tutto muta.
Aspettiamo il tramonto, piantiamo i nostri cavalletti ben saldi al suolo coprendo le fotocamere con qualche indumento di fortuna e aspettiamo che la luce del sole diventi così tenue da cedere il passo alle luminosità del vulcano.
Quasi un passaggio di scettro; se di giorno ci aveva regalato qualche emozione, adesso decide davvero di dare il meglio di sé.
I bordi della caldera assumono un colore dall’arancione al rosso vivo, il lago si accende lentamente e progressivamente proprio come una grande metropoli. Esplosioni a raffica ci regalano il più grande spettacolo pirotecnico mai immaginato. E’ quasi l’ultimo dell’anno, commossi davanti a tanta potenza scattiamo qualche timida foto, ma soprattutto rimaniamo incantati e in silenzio, stupiti e fieri, qualcuno con le lacrime agli occhi, ad esprimere desideri come nella notte di San Lorenzo davanti ad uno sciame di stelle cadenti.
Mi sento piccolo piccolo, sono ai “cancelli dell’inferno”. Questa estate ero stato in Tibet a 5000 metri “alle porte del cielo”, non posso non ringraziare un Dio Creatore di avermi permesso di godere di tale spettacolo.
“La piana del sale”
“Una antica leggenda dice che queste terre un tempo erano stracolme d’oro più che in ogni altro luogo del mondo, ma gli uomini ne diventarono così avidi che Dio decise di punirli trasformando tutto l’oro in sale. Solo quando l’uomo imparerà a vivere senza avarizia Dio restituirà l’oro a queste terre.”
Con le nostre jeep percorriamo in tutte le direzioni km di deserto sabbioso seguendo tracce fatiscenti di precedenti passaggi.
Ad un tratto il riverbero diventa fortissimo, il suolo si trasforma, appare a tratti levigato come in una lastra di ghiaccio, in altri, spaccato e sollevato in piastrelle, ad assumere incredibili forme geometriche. Siamo davanti alla più grande estensione di sale, bianca come la neve, sotto un torrido sole tropicale.
Qui sarebbe impossibile per chiunque vivere, tranne che per loro, gli Afar, un popolo nomade, enigmatico, ruvido, che è riuscito a conservare ritmi e costumi invariati da secoli.
E’ quasi il tramonto quando scorgiamo all’orizzonte le prime tremolanti sagome dei dromedari: la meta è vicina.
L’incontro è emozionante, accettano la nostra presenza pur senza mai distogliere l’attenzione dal loro lavoro. Devono caricare tutti i dromedari e i muli in tempo per mettersi in marcia.
Musulmani e cristiani lavorano insieme, condividono abilità e capacità, hanno bisogno gli uni degli altri per vivere e per conservare un’identità e una tradizione che resiste da millenni.
In un paese dove niente fa pensare ad un equilibrio, musulmani e cristiani riescono ancora a convivere con un obiettivo comune: il commercio del sale, che da tempi immemorabili fa vivere migliaia di famiglie.
Si riconoscono bene, i Tigrini dediti a rompere la crosta di sale e a sollevarla, con l’aiuto di lunghe pertiche, gli Afar, dagli “incisivi limati a punta” e utilizzati in passato per spaventare i nemici, ancora intenti a preparare con minuziosa abilità le ultime mattonelle, tutte uguali fra loro e tali da poter essere impilate perfettamente, i cammellieri intenti in spericolati giochi di equilibrio nel caricare e legare sui dromedari fino a 500 chili per ogni animale.
La loro abilità è frutto di insegnamenti che si tramandano di padre in figlio e di una manualità acquisita con molta fatica. Lavorano per sette ore, sotto il sole cocente per estrarre complessivamente fino a 300 tonnellate di sale al giorno.
Occhi bruciati dal sole e dal sale, pelli scavate da profondi solchi, segno di un lavoro massacrante. Accecati dai bianchi deserti continuano a chiederci disperatamente un paio di occhiali da sole.
Il sole è ormai all’orizzonte; è il segnale: il carico è terminato. Si versano, come sempre, un secchio d’acqua sul corpo, per poi coprirlo con spesse coperte ad impedirne l’evaporazione. Come in una scena biblica, formano le carovane e inizia il viaggio verso l’altopiano. Si ordinano lungo la linea dell’orizzonte, pronti ad affrontare il loro ennesimo viaggio di tre giorni per poter finalmente vendere al mercato più vicino “quel prezioso oro bianco”.
Passano davanti a noi silenziosi, masticando chat per vincere la stanchezza, qualche sorriso, qualche cenno con la mano, ognuno davanti alla propria carovana, come timonieri sulle proprie navi intenti a mantenere la rotta. Regaliamo loro le ultima paia di occhiali, scattiamo le ultime foto, ma con il pensiero ci inginocchiamo davanti a tanto coraggio e a tanta forza nella lotta per la sopravvivenza.
“Dallol”
All’estremità nord della piana, sorge Dallol, il «Monte degli Spiriti», un vulcano che emerge quasi come un fantasma dal deserto di sale.
Saliamo un facile pendio e in poco tempo siamo all’interno del cratere. Sembra un luogo magico. Sorgenti geyser, dal colore bianco, giallo, rosso ocra e arancione, emettono esalazioni di sali di cloruro di potassio, magnesio e sodio, dando vita a infinite sfumature di colore tali da rendere questa porzione di deserto un luogo unico al mondo.
Ovunque pozze dai colori surreali ognuna determinata dall’ incontro dei minerali con l’evaporazione dell’acqua, dal verde chiaro al verde intenso a seconda della concentrazione del sale.
Un terreno cosparso di merletti, dove i minerali cristallizzati assumono le fome più diverse ora a “fungo”, a “fiore”, a “spugna”, a “cammino delle fate”.
Camminiamo delicatamente “come sulle uova” cercando di non danneggiare questo inestimabile patrimonio, l’impressione è di essere davanti ad un enorme “acquario senza acqua”, pieno di coralli preziosi.
In cima al monte i resti del nostro colonialismo, un campo ormai abbandonato per l’estrazione del potassio. Un tentativo pionieristico, ai primi del novecento, di dominare la natura. Nel campo vecchie carcasse rugginose di improbabili macchinari, vecchi camion, un balilla ormai sprofondata nel morbido terreno, baracche dove alloggiarono i nostri connazionali incapaci di sfidare un clima e una natura impossibile per la nostre abitudini.
Abbandoniamo il campo attraversando un lungo canyon di rocce e di sali sedimentati. Al limite dalla montagna, imperturbate, “le torri di Dallol”, guardiane indiscusse di un patrimonio da non perdere.
Lasciamo la terra estrema per tornare sull’altopiano etiope, di nuovo “un salto verso il cielo”, 2000 metri sopra il livello del mare dove la vegetazione ritorna ad essere la padrona; in basso lasciamo le temperature più alte del pianeta e il nostro cuore ai “cancelli dell’inferno”.
Galleria Fotografica
Bellissimo articolo. Foto inimmaginabili. Ti invidio per essere stato in un posto così inusuale e lunare.
Colori spettacolari, paesaggi surreali e suggestivi, sguardi che rispecchiano l’anima, sorrisi pieni di sole, volti stanchi ma sereni, bambini già uomini, bambine prossime a diventare donne in un età ancora troppo ingenua. Uomini che tutti i giorni sfidano le avversità della loro terra poco generosa con enorme fatica, ma con un orgoglio che noi abbiamo dimenticato, che tutte le sere camminano nel sole per tornare dalle loro mogli che con pazienza e grande dignità hanno accettato la vita che Dio gli ha preservato, ormai rassegnate ad essere vento.
Questo sono capaci di raccontare le tue foto, sempre più potenti, sempre più intense, sempre più disarmanti. E mentre le guardo e le riguardo, il mio cuore rallenta e la mia testa cammina, ad immaginare tutto quello che i tuoi occhi hanno visto e che il tuo cuore ha immortalato, credo di non esagerare nel dire che hai il dono di raccogliere nelle tue foto, il punto di vista di Dio.
Bravissimo, come sempre!!
La ns. ammirazione per il tuo coraggio nell’ affrontare queste situazioni estreme e i ns. ringraziamenti per farci partecipi delle tue emozioni, grazie al sentimento che metti nella descrizione di ogni singolo momento di questa tua avventura… Un abbraccio !