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Galleria Fotografica – Tawang Temple Gompa / Il viaggio
Proiezione multimediale
INDIA DEL NORD
ARUNACHAL PRADESH – ASSAM – NAGALAND
DIARIO DI VIAGGIO
Testo Rosalba Galassi foto Antonio Porcelli
(Riporto questo prezioso diario di viaggio scritto dalla mia amica Rosalba. Ancor prima dell’itinerario, un viaggio inizia con la scelta dei compagni e non potevo fare una scelta migliore! Gruppo formidabile, compatto e solidale nel condividere una esperienza unica).
Parte I
“NAMASTE’”
L’India ci accoglie con la sacralità di un saluto che dischiude la celebrazione dell’altro. E’ un termine sanscrito il cui significato risiede nell’espressione ‘mi inchino a te’ o anche ‘riconosco la luce che è in te’. Viene pronunciato dalla nostra guida indiana, Prakash (il cui nome significa “luce”): il capo leggermente piegato in avanti, le mani giunte, un palmo contro l’altro, appena sotto il mento, all’altezza del cuore.
Siamo all’aeroporto di GUWAHATI capitale dell’ ASSAM. Prakash cinge il collo di ognuno di noi con il “GAMOSA”, una sciarpa ricamata bianca e rossa, simbolo di vita e di cultura dell’ Assam e di benvenuto. Il sole è già sceso quando, dopo aver incontrato i “drivers” e caricato i bagagli sulle due jeep che erano ad attenderci, iniziamo a muoverci verso BHALOKPONG al confine tra ASSAM e ARUNACHAL PRADESH, stati del nord-est indiano. Di li a poco, lungo la strada, in un locale piccolo, poco illuminato e per nulla accogliente consumiamo un pasto veloce, il nostro primo in India, per poi riprendere il cammino.
La stanchezza accumulata nel viaggio trova ogni tanto sollievo grazie a brevi ma ripetuti sonni che rendono più sopportabili i 240 km da percorrere; complice, il buio avanzato velocemente che d’un tratto inghiotte il paesaggio.
Breve sosta alla frontiera per sbrigare le pratiche dei permessi e giungiamo alla struttura di
BHALOPONG, sulle rive del fiume KAMENG , dove trascorreremo la notte.
IL mattino seguente, rinfrancati dal riposo notturno, partiamo alla volta di DIRANG.
Il paesaggio cambia, e nei circa 145 km di percorso, si passa dalle pianure dell’Assam alle alte montagne, lungo una strada che si arrampica quasi all’infinito sul margine di pendii coperti di foreste rigogliose e scende poi in valli fluviali cosparse da accampamenti militari. Siamo già nel montagnoso ARUNACHAL PRASESH, (delimitato da Tibet a nord, da Assam e Nagaland a sud e a est, e dal Bhutan a ovest), ”terra delle montagne baciate dal sole nascente“, terra di verdi foreste, di valli attraversate da fiumi scroscianti e di altipiani, terra dove creste boscose si innalzano fino a trasformarsi in cime innevate lungo il confine cinese. Saliamo verso il SELA PASS a oltre 4000 mt. di altitudine. Le montagne himalayane che fanno da corona al passo si specchiano immobili nel lago, al contrario delle teorie di LUNG-TA , le colorate bandiere di preghiera, agitate dal vento.
Si procede lentamente su questa strada polverosa, in alcuni tratti a passo d’uomo perché spesso la carreggiata è ostruita da cumuli di terra o da massi caduti, che vanno aggirati come le enormi buche. Ci dice Prakash che la strada è soggetta a manutenzione continua, perché le avverse condizioni atmosferiche su questo terreno provocano continuamente frane e smottamenti.
Sono tante le persone che lavorano al ripristino della strada.
Teli di plastica disposti a mo’ di capanne costituiscono gli accampamenti provvisori di questa gente. Per molti di loro non è il semplice riparo per un breve riposo durante una dura giornata di fatica, ma la sistemazione per tutto il periodo del lavoro.
Purtroppo, e dico purtroppo perché fa male, l’andatura lenta della jeep, fa si che spesso I miei occhi incrocino i loro ed è come se quegli occhi, indugiando anche per poco nei miei, mi interrogassero sul perché della profonda differenza tra le nostre condizioni di vita.
Cerco risposte ma lo sguardo viene continuamente irretito dall’immagine, inumana, di donne che spaccano pietre o spalano e trasportano terra con i bimbi stretti da fasce sulle loro spalle; bimbi che a volte dormono o piangono con le gote rosse screpolate dal sole e dall’aria fredda, “moccoli” impiastrano i loro visi.
Siamo diretti a TAWANG, attraverso l’omonima valle, circondata da montagne, un altopiano inclinato vastissimo e in gran parte coltivato su cui occhieggiano villaggi in stile tibetano e monasteri buddisti.
Raggiungiamo TAWANG GOMPA, cittadella fortificata eretta nel 1681 e il cui nome significa “benedetto da un cavallo”.
Si ritiene che sia il secondo complesso buddista più grande del mondo .
Stretti vicoli su cui si affacciano le bianche case dei monaci conducono alla colorata casa di preghiera il DUNKHANG.
Togliamo le scarpe ed entriamo silenziosi: i monaci accovacciati uno accanto all’altro nella fioca luce del mattino che filtra dalle finestre stanno pregando intonando un mantra, una cantilena ripetitiva; sullo sfondo la statua del budda SHAKYAMUNI, alta 8 metri e interamente coperta d’oro.
Alla fine della cerimonia, sul piazzale antistante la sala, è uno scatenarsi di corse, scherzi e giochi dei monaci più piccoli, poi tutti, anche i più grandi, stretti nei loro mantelli porpora si ricompongono in una fila ordinata per ricevere a turno il pasto della giornata.
A pochi chilometri da TAWANG raggiungiamo ANIGOMPA ( convento femminile). Saliamo al villaggio per scale di pietra, dove contenitori di ogni tipo, adattati a vasi di fiori, fanno bella mostra e riflettono nell’ordine della disposizione la cura per il luogo.
Le ragazze avvolte nelle loro tuniche cremisi ci accolgono con cordialità e ampi sorrisi su volti non addolciti da una cornice di capelli, rischiarati però da sguardi sereni e luminosi . Ora siamo diretti verso l’antico UGELLING GOMPA, piccolo villaggio dove nacque il 6° DALAI LAMA.
C’è ancora tempo per una visita al vecchio mercato di TAWANG, dove le colorate ruote
di preghiera vengono girate dai pellegrini MONPA , molti dei quali indossano i tradizionali copricapi neri in lana di yak che conferiscono loro un aspetto curioso, un po’ rasta. Della tribù MONPA (la più diffusa nella regione di TAWANG) è il villaggio RHOU , in stile tibetano, nei pressi di Tawang.
Quando arriviamo, gli abitanti sono nei campi, la loro principale occupazione; alcuni con grandi cesti separano al vento i semi dalla pula; altre donne, sedute nel caldo sole del pomeriggio, accompagnano il lavoro a maglia con i loro racconti e accennano a timidi sorrisi, che nascondono con le mani, quando scorgono le nostre macchine fotografiche che hanno interrotto la quotidianità dei gesti e delle loro abitudini.
I MONPA sono anche abili allevatori di bestiame e artigiani; lavorano il legno e il bambù, tessono tappeti e dipingono THANGKA della tradizione buddista.
IL Buddismo e il culto Bon, basato sulla venerazione degli spiriti e sul sacrificio degli animali, costituiscono il sincretismo della loro religione.
Sulla strada tra TAWANG e BOMDILA , una sosta alla OLD DIRANG, pittoresco villaggio tibetano-monpa in pietra.
Siamo di ritorno sullo stesso polveroso, lento, tortuoso percorso dell’andata, verso ITANAGAR capitale dell’Arunachal Pradesh. Abbiamo molti kilometri da macinare; qualche sosta di tanto in tanto, richiesta da noi o necessaria agli autisti per sgranchirsi o riposarsi da una guida per nulla facile su questo percorso accidentato.
Nel tragitto verso ITANAGAR, lasciamo per un po’ l’Arunachal Pradesh. C’è un tepore diverso ora nell’aria. Siamo tra le pianure dell’Assam dove ad un punto convenuto incontriamo gli altri componenti del gruppo, partiti con qualche giorno di ritardo rispetto a noi, con i quali proseguiremo per tutto il resto del viaggio.
Maciniamo ancora tanti chilometri, finalmente, a pomeriggio inoltrato, dopo il controllo dei permessi, siamo pronti a varcare il confine , rientrare in Arunachal Pradesh e continuare fino a ITANAGAR, importante centro culturale e amministrativo.
La strada per ZIRO, capoluogo del distretto Subansiri, dell’Arunachal Pradesh, che si snoda tra risaie a terrazza, foreste di bambù, banani selvatici, felci arborescenti, sembra far fatica a conservare forma e andamento quasi soffocata da questo verde così rigoglioso, prepotente, invadente. Nell’altopiano attorno alla città di Ziro, situata a 1570 mt. di altitudine, si trovano i villaggi delle principali tribù dell’Arunachal Pradesh tra cui gli APATANI; HONG, uno di questi, verso il quale siamo diretti, è considerato uno dei più importanti villaggi tribali dell’India. Vi entriamo accompagnati, oltre che da Prakash, da una guida locale, una ragazza dal nome difficile, impronunciabile, dai tratti somatici mongoli secondo l’origine degli Apatani, e senza la presenza della quale ci si potrebbe sentire poco graditi e non tutte le porte potrebbero aprirsi. Gli Apatani sono abili agricoltori: le risaie sia di pianura, sia terrazzate, sono irrigate attraverso una fitta rete di canali e spesso utilizzate per l’allevamento del pesce; coltivano le loro valli anche a miglio e mais e sono abili commercianti e mercanti. Le case costruite in bambù e legno di pino su palafitte, per preservarle dall’umidità e dalle piogge monsoniche, sono addossate una all’altra su stretti viottoli. A una piccola prima stanza, che funge da deposito di legna e attrezzi, segue l’ambiente dove la famiglia vive e dove sopra una pietra piatta è posto il focolare domestico. Su un lato vi sono la stanza da letto e in fondo un piccolo balcone. ll “LAPANG”, struttura costituita da una lunga piattaforma rialzata e coperta, è il luogo dove si svolgono le cerimonie e assemblee pubbliche del villaggio. Altra struttura tipica Apatani, è il “BABO”, un lungo palo di legno alla sommità del quale un’asta posizionata perpendicolarmente (a conferire una forma a T) porta alle due estremità, a mo’ di bilancia, delle decorazioni in legno e bambù che, a penzoloni, ondeggiano nell’aria e stanno ad indicare la presenza di figli maschi presso la casa accanto. La guida ci accompagna poi in un ‘area poco lontana dal villaggio dove, tra la vegetazione spontanea, vi sono strani totem di canne, piume, spighe, uova e dove tra gennaio e marzo vengono eseguiti riti sciamanici per propiziare il raccolto; si uccidono polli ed altri animali con il sangue dei quali si bagnano i totem. Gli Apatani adorano gli spiriti della terra e del cielo, il sole e la luna (Donyi-Polo). Anche all’esterno delle case sono presenti “amuleti” ben auguranti. I villaggi sono divisi in clan e il governo è retto da un consiglio degli anziani che ha ancora un potere intatto e autorevole .Esistono due classi sociali ben distinte: gli aristocratici che possiedono terre e l’altra, discendente daglii schiavi che attualmente non esistono più. L’aspetto più interessante di questa tribù sono sicuramente i tatuaggi. Le donne più anziane hanno una larga linea bluastra che scende dalla fronte alla punta del naso, altre cinque linee, che vanno dal labbro inferiore al mento, sono unite da una trasversale parallela al labbro inferiore. Hanno inoltre due tappi di bambù chiamati “dat “ inseriti nella cartilagine del naso. E’ un’antica usanza questa, ora non più praticata, derivata, sembra, dal fatto che per evitare i continui rapimenti delle donne apatani, famose per la loro bellezza, da parte dei guerrieri delle vicine tribù “nishi”, gli uomini le obbligassero a peggiorare il loro aspetto con questa pratica. Anche gli uomini sul mento hanno un tatuaggio bluastro a forma di “T” e acconciano i capelli con un nodo sulla sommità della fronte trattenuto da una bacchetta lunga una trentina di centimetri
posta di traverso. Uomini e donne perforano i lobi delle orecchie dove inseriscono un grande anello di bambù che servirà per attaccare altri anelli. Animale tipico di questo territorio è il MITHUN, un po’ bue e un po’ yak, del quale non viene mangiata la carne né bevuto il latte, ma che riveste un ruolo importante in tutte le cerimonie.
Ora siamo diretti ai villaggi “HARI “e “BULLA” abitati, anche questi, da Apatani. Ad HARI la guida
ci fa notare una particolare struttura, MONKEY-CEMETERY, una costruzione a mo’ di piccola capanna realizzata in bambù posizionata vicino al Lapan dove vengono deposte le scimmie sacrificate in onore del defunto. E’ credenza, infatti, che il defunto tragga tranquillità solo dopo aver avuto in sacrificio una scimmia. Appena fuori il villaggio BULLA, c’è un luogo di sepoltura. Vi arriviamo a pomeriggio inoltrato. Immersa nel silenzio, l’area è un grande prato circondato da
alberi sul quale pascolano mucche e qualche capra. Canne di bambù intrecciate e annodate fra loro a costituire una sorta di impalcatura hanno sulla sommità, in bella mostra, il teschio della capra o del mithun. La luce del sole, ormai bassa all’orizzonte, proietta sul terreno le ombre di questi totem le cui differenti forme e altezze indicano la sepoltura di uomini, donne o bambini. Ombre lunghe, sfumate si fondono con quelle degli animali che pascolano, in un passaggio delicato di forme e colori. Una strana, dolce quiete emana attorno.
“HJTA” è l’ultimo villaggio Apatani della giornata. Sarà una visita un po’ meno accurata rispetto a quelle precedenti perché è già tardi. Solo pochi scatti per le nostre macchine fotografiche, la luce non è più sufficiente. Con un po’ di delusione, lasciamo penzolare al collo gli apparecchi inermi, i più rassegnati li ripongono definitivamente nelle loro custodie, ma i viaggi insegnano anche che qualche volta bisogna saper rinunciare. Ci aggiriamo tra le abitazioni. Le caratteristiche del villaggio sono le stesse degli altri visitati fin qui: le case di bambù, gli amuleti accanto alle abitazioni,
gli animali domestici che gironzolano indisturbati e incuranti della nostra estranea presenza.
Un bambino si attarda a giocare con un cagnolino mentre sua madre lo sta chiamando, altri bimbi incuriositi ci seguono, ridono e parlano fra loro, fino a quando uno del nostro gruppo regala loro delle caramelle. Una donna uscita di casa va a prendere legna da una catasta addossata alla scala d’ingresso, poi torna veloce sui suoi passi: è ora di accendere il fuoco. L’aria si è fatta più fredda ora che il sole se n’è andato. Noi torniamo alle nostre jeep; mi volto istintivamente quasi a salutare il villaggio: sagome nere di “babo” dondolano all’aria del tramonto, ombre cinesi contro un cielo striato di rosso.
Percorrere tanti chilometri ogni giorno sembra essere la costante di questo viaggio e non c’è mai corrispondenza esatta, riguardo ai tempi e alle distanze, tra quanto indicato nel nostro programma, quello che ci prospetta ogni giorno Prakash e il tempo effettivo impiegato per raggiungere la destinazione che poi risulta essere il predominante.
Continuiamo il nostro viaggio per ZIRO-DAPORIJO-ALONG attraverso uno scenario tropicale di alberi di banano e cardamomo selvatici, canne di bambù, felci giganti e, alta a cespuglio, ai lati della strada, la poinsettia (la stella di natale). I villaggi distano parecchio l’uno dall’altro ma durante il percorso, ai margini della strada, ogni tanto vi sono delle abitazioni isolate, le solite capanne palafitte. In questo caso, però, il loro equilibrio sembra ancora più precario poiché, per livellare la superficie su cui poggia il pavimento dell’abitazione, i pali di sostegno poggiano sul dirupo appena sotto la strada e sono quindi di lunghezze differenti rispetto a quelli sul piano stradale. La stessa cosa avviene per le abitazioni abbarbicate sui pendii. Così, l’intreccio di pali con pali o di pali con canne, realizzatosi senza altro criterio di costruzione se non quello dettato dalla necessità del momento, conferisce all’intero agglomerato un’apparenza di instabilità al punto da provocare forte la sensazione che tutto possa crollare da un momento all’altro, anche solo con il tocco di una mano. Un po’ come quando si realizzano casette con le carte da gioco e si resta a guardarle in silenzio, con il fiato sospeso, consapevoli che ogni impercettibile movimento dell’aria potrebbe causarne il crollo. Fortunatamente per le abitazioni è solo una sensazione!
Sono questi i territori abitati dalle etnie TAGIN, HILL MIRI, ADI. I Tagin popolo dalla tradizione guerriera, occupano le colline tra il distretto del Subansiri Superiore e il fiume Kamala a nord del Brahmaputra. Quest’area, compresa tra quelle occupate dai Nishi e dagli Adi, fu in passato motivo di contesa proprio tra queste tribù. I Tagin vestono principalmente abiti in lana. Abitano case palafitte per difesa dalle piogge monsoniche ma soprattutto da orsi e tigri. Animiste le loro credenze religiose anche se la loro cultura risente dell’influenza Tibetana. Gli Hill Miri occupano la parte bassa della valle di Kamala; agricoltori, praticano sia la coltivazione “in asciutto”, sia con irrigazione. Sono esperti nella realizzazione di oggetti in bambù gli uomini, e nell’arte della tessitura le donne. Credono nell’esistenza di una divinità superiore e in un numero di divinità e spiriti minori.
Ogni tanto, anche dove la strada non ha che giungla attorno, senza la pur minima traccia di insediamento umano, incrociamo persone con grandi gerle di bambù, ancorate ad una fascia che dalle spalle passa attorno alla testa. Trasportano legna, presumibilmente raccolta nella foresta; portamento eretto, andatura sostenuta, solo collo e testa inclinati un po’ in avanti, a sostenere il carico, sono indice dell’enorme peso.
Siamo diretti verso villaggi dell’etnia ADI che abitano la valle del fiume SIANG e si dividono in tre
comunità: Gallong,Padam,Miwong. Sono costruttori abilissimi di ponti in canne di bambù e popolari per le loro danze tribali dai rituali religiosi.Gli Adi-Gallong coltivano riso, miglio, patate dolci, peperoncino e tabacco, costruiscono le loro abitazioni sui fianchi delle colline. Indossano un tipico cappello di bambù intrecciato con una tesa a punta. A tracolla, portano uno zainetto piatto di bambù e il machete custodito anch’esso in un fodero di bambù. I Miwong, dai costumi simili agli adi-gallong, sono di piccola statura,tali da essere considerati equivalenti ai pigmei africani.
Arriviamo al villaggio KABU. Qui le lunghe case palafitte, hanno tetti in bambù e sono circondate da spazi verdi. Su uno di questi, accanto a una stradina che attraversa il villaggio, facciamo una sosta . Questa mattina durante il tragitto, Prakash ha comperato degli ananas in una bancarella sul lato della strada. Ora li pulisce con un arnese più somigliante a un machete che a un coltello: movimenti decisi, i suoi, non improvvisati, frutto sicuramente di tanta pratica, data la diffusione dell’ananas in queste zone. Ne mangiamo e ne offriamo anche ai bambini che nel frattempo, incuriositi dall’arrivo delle nostre tre jeep, si sono radunati vicino a noi.
Comperare frutta dalle bancarelle lungo la strada è diventato per noi quasi abituale. Ananas, banane e “orange”, frutti intensamente coltivati e somiglianti nella forma, ma più ancora nel sapore, a mandarini, li troviamo venduti in cestini di sottili strisce di bambù diversamente intrecciate a creare differenti fogge, disegni e texture., a dimostrazione dell’abilità di questa gente nel realizzare qualsiasi oggetto utilizzando le materie che il territorio da sempre mette loro a disposizione.
A piedi, superiamo le ultime case e attraversiamo un ponte sospeso sul fiume fino ad imboccare un sentiero che in due ore circa ci porta ad un altro villaggio della stessa etnia. Lo attraversiamo e all’uscita, giungiamo al ponte, sospeso anche questo, dalla struttura abbastanza traballante che ci porta al di là del fiume dove sono ad attenderci le jeep.
E’ già sera, siamo diretti ad un altro villaggio che ci accoglie con danze tipiche di benvenuto poi, all’interno di una caratteristica abitazione, seduti su piccoli sgabelli in bambù attorno al focolare, consumiamo un pasto tipico offertoci dai padroni di casa. Ampie foglie di banano fungono da piatti che vengono ripetutamente riempiti con riso bollito, verdure crude e cotte con l’aggiunta di pezzi di carne di indistinta provenienza. Un segmento di canna di bambù, cava all’interno, è il bicchiere che ci viene offerto riempito di una sorta di bevanda alcolica realizzata con riso fermentato. Obbedire ai doveri dell’ospitalità e assaggiare tutto ciò che ci viene offerto risulta a volte difficile; sono sapori molto diversi dai nostri e non sempre graditi ai nostri palati.
La strada ora corre a tratti accanto al letto del fiume SIANG (che più a valle diventa l’imponente BRAHMAPUTRA dopo aver incontrato i fiumi DIHANG e LOHIT), poi continua alta sul fiume che scorre serpeggiando laggiù in basso. Il paesaggio attorno è bellissimo. Lungo il tragitto per PASSIGHAT ci fermiamo su uno dei più lunghi ponti in bambù “sospesi”. Alcuni di noi provano l’ebbrezza di attraversarlo; naturalmente, oltre all’audacia, è richiesta una buona dose di equilibrio. Terminate le nostre esibizioni da acrobati, si riprende il cammino. La strada è quella lenta e sconnessa di sempre con la polvere che, assidua compagna di viaggio, penetra in ogni anfratto della jeep e prende posto incurante di noi. All’improvviso ci fermiamo: la strada è interrotta, c’è gente al lavoro per sistemarla o allargarla, non è ben chiaro. Un cartello di traverso impedisce l’accesso, annuncia che la viabilità non sarà possibile fino alle ore 15.00. Altre auto sopraggiunte nel frattempo allungano la coda di attesa che via via si è andata formando. La “ruspa” ha sbancato buona parte della parete alla nostra destra trascinando al suolo terra, sassi, arbusti, cespugli e alberi di chissà quanti anni. Come un gigante dai modi gentili, l’imponente macchinario muove la pala meccanica e, con movimenti lenti e delicati, spinge sassi, massi, cespugli, foglie, cortecce, tronchi e alberi, verso la sponda sinistra della strada dove tutto precipita provocando un frastuono incredibile. Infine l’escavatore, con gli stessi delicati movimenti, sotto gli occhi dei curiosi che intanto hanno fatto capannello incuranti di qualsiasi norma di prevenzione per il pericolo, livella in modo approssimativo il terreno e le jeep, a scatti, arrancando un po’ nella terra ancora non impaccata, possono riprendere il cammino.
La strada ora è divenuta migliore, una sosta in un villaggio adi-minyong del quale non riesco a decifrare il nome dal mio moleskine, ma dove gli abitanti sono molto ospitali e spiritosi. Ci accolgono sorridenti e sembrano desiderosi di comunicare con noi; alcune parole in inglese nostre e dei più giovani di loro, unite all’universale linguaggio dei gesti (nel quale noi italiani siamo specializzati) salva la situazione. Sono orgogliosi di mostrarci l’abbigliamento della loro tradizione. Un cappello in bambù sulla sommità del quale è posta la testa del tucano, il machete all’interno di un fodero in bambù, una lunga lancia e una casacca. Li indossano per noi e invitano una di noi (Paola) ad indossarli a sua volta. Varchiamo il confine e dall’ Arunachal passiamo in Assam. Il paesaggio si fa ora pianeggiante e risaie si estendono con continuità fino a quando, in lontananza, si scorgono i bagliori luccicanti del Brhamaputra. E’ caldo sulla riva del fiume. Dall’acqua immobile spiccano i pilastri del faraonico ponte ancora in costruzione; una volta terminato, metterà in comunicazione in modo permanente le due sponde permettendo il contagio delle ultime tribù dell’ Arunachal. Ci aggiriamo tra i ripari improvvisati con teli di plastica dove si può comperare di tutto e dove cibi tradizionali vengono cotti su fornelli maleodoranti a causa delle perdite di gas. Su un piccolo braciere alimentato a legna, sopra una piastra annerita da un uso vecchio di sempre e mai ripulita, cuoce invece il chapati che ci viene servito caldo, bruciacchiato in qualche punto, dal sapore semplice e per questo assai gradito. Gente di ogni tipo si mescola ad ogni sorta di mercanzia in attesa della chiatta sulla quale traghetteremo. Siamo sempre oggetto di tanta curiosità. Finalmente arriva la chiatta, stracarica di gente, animali, auto, moto…iniziano le operazioni di sbarco. Donne intinte nei loro sari variopinti e leggeri scendono attraverso passerelle improvvisate, costituite da semplici assi di legno tese tra la chiatta e la riva sabbiosa, trasportando fagotti e borse; talune con i bambini in braccio. Poi è la volta delle auto e le moto: operazione più complicata e seguita con interesse e curiosità da tutti. Saliamo e, pigiati come tranci di tonno in scatola, iniziamo la lenta e monotona traversata seguendo la fangosa corrente del fiume. Sull’acqua, i riflessi delle imbarcazioni ormeggiate ondeggiano colorati. Sembrano pitture impressioniste o preziosi tappeti sui quali giungiamo alla riva opposta del Brahmaputra.
“Però sei incontaminato. Non sei mica come loro. Hai ancora qualcosa che si muove, tu, dentro. Loro sono induriti, perduti. Ti sarai perso, ma indurito però no. Ti occorre solo di venir trovato.”
Charles Bukowski
ecco, non sapevo come dirlo, poi ho letto questa frase.
penso che solo una persona incontaminata possa riuscire ad immortalare questi istanti di vita. Forse perché, proprio nella fotografia ritrovi te stesso!
bravo!
Caro Antonio e cara Risalba …. Grazie!!! Insieme a voi rivivo le emozioni ” articchite” di questo nostro straordinario viaggio. Abbiamo conosciuto una civiltà ancora quasi incontaminata , perfettamente efficiente ed autonomo,
Ricordo Antonio che quando una mattina ,mentre ero in motorino ,mi hai chiamato sul cellulare proponendomi il viaggio , non ho avuto esitazione e ti ho detto subito si!!!
Avevo letto qualcosa qualche mese prima e subito ero stata incuriosita e quando me l’hai proposto sono rimasta stupita ed entusiasta !!!!
Che bello questo sentire comune …. !!! Tutti quanti insieme e tutti sulla stessa lunghezza !!!!